Se mai inizierete a scrivere un blog, sappiate che è possibile che vi capitino strane avventure e per il primo post di quest’anno ho deciso di partire dallo spunto di una di queste.
Ormai qualche mese fa, sono stata contattata dalla giornalista di un programma TV di Rai Tre che cercava testimonianze per un reportage televisivo sul tema “Quanto guadagnano gli italiani?”, centrato prevalentemente su professionisti – come noi architetti – e su lavoratori atipici.
Perché ha contattato proprio me? Perché è capitata su un post che ho scritto circa un anno fa, “Anche gli architetti piangono“, in cui facevo un bilancio economico del mio anno lavorativo e a quanto pare ha ritenuto la mia esperienza interessante per il suo reportage.
Quando ho ricevuto la sua email il mio status è passato nello spazio di un attimo da “Oddio-se-partecipo-ad-un-reportage-televisivo-mi-licenziano” a “Oddio-non-ho-niente-da-mettermi”. Avrei partecipato senz’altro, sì, perché quando si inizia ad occuparsi di un certo tema, nel mio caso delle gioie e dei dolori degli architetti, poi bisogna essere coerenti con se stessi ed andare fino in fondo, affrontandone anche le conseguenze.
Ci siamo sentite al telefono, e com’è come non è, mi sono sorpresa a giustificarmi del fatto che il mio “caso” non fosse sufficientemente pietoso da essere presentato in TV. Che si sa che alla TV piacciono il dolore, la sofferenza vera, l’intervista di denuncia anonima, col soggetto di spalle in penombra e con la voce contraffatta.
Ironia a parte – so bene che c’è chi sta peggio di me – a quanto pare non lavoro più un numero sufficientemente drammatico di ore, guadagno troppo, non ho prole da mantenere, e le ristrettezze economiche non mi costringono a vivere ancora con mamma e papà: ho troppo poco di cui lamentarmi e non farei audience. Touché.
E insomma, non se ne è fatto nulla, se non un piccolo aiuto che ho dato alla giornalista nel trovare altre persone – limitatamente al nostro campo – la cui storia professionale potesse meglio rappresentare la sua idea.
Ma facciamo un passo indietro, perché comunque due cose sull’argomento le voglio dire ed essendo il primo post dell’anno mi serve anche per fare il punto su alcune delle questioni che racconto in questo blog.
La giornalista era in realtà sulle tracce di un collega architetto – anonimo – che ha inviato una lettera di denuncia pubblicata sia su La Stampa sia su La Nuvola del Lavoro del Corriere della Sera. Quella lettera la conosco bene perché ne ho seguito reazioni e commenti (per esempio questo).
Ne ricapitolo il contenuto, che è la sintesi della situazione lavorativa dello scrivente:
- Collaboratore a partita Iva di uno studio associato di architettura, in cui vige obbligo di apertura della suddetta per ogni nuovo “assunto”
- Assenza di qualsiasi forma di contratto di lavoro
- Giornata lavorativa di 10 ore (in media) passate interamente in una postazione computer (no cantiere, no clienti, no sopralluoghi, no no no)
- Frequenti ore di straordinario non retribuite
- Pratica usuale di organizzare le riunioni di coordinamento con i capi al momento del loro rientro in studio a fine giornata: riunioni che, iniziando alle 18-19, non termineranno prima delle 20-21
- Scadenze dei progetti fissate con tempistiche ridicole
- Lavoro nel weekend non escluso
- Smart working non contemplato
- Nessun orario prestabilito da contratto, ma di fatto controllo dell’orario in ingresso e in uscita, con particolare attenzione all’eccessiva puntualità in uscita (“non siamo impiegati delle Poste”)
- Impossibilità di seguire altri progetti al di fuori di questa collaborazione per via dei ritmi di lavoro, e quindi di fatto status di libero professionista fake
- Compenso mensile equiparabile a quello di un cameriere (senza nulla togliere al coolo che si fanno i camerieri)
- Assenza di qualsiasi forma di tutela
- Esperienze di colloqui con proposte di collaborazione pagate fra i 300 e i 1000 € lordi mensili
- Obbligo di formazione continua
- Obbligo di assicurazione professionale
Personalmente, negli anni sono passata attraverso tutti gli scenari presentati nei punti precedenti, e anche ora non ne sono del tutto esente.
L’impiego a partita Iva, ma di fatto con tutti gli obblighi di un lavoro di tipo dipendente e senza nessuna tutela, è una situazione ormai non più nuova, che è comune a tanti professionisti, giovani e meno giovani, ma che viene scarsamente presa in considerazione da chi dovrebbe occuparsi di dare delle regole.
C’è chi sostiene, banalizzando a mio parere il problema, che sarebbe sufficiente che certe condizioni non venissero accettate dai lavoratori, ma questo significa non voler vedere la realtà dei fatti, e non lo dico per cattiva coscienza: è il sistema generale del nostro lavoro che si è stanziato su questo presupposto e spesso questo è l’unico modo in cui possiamo lavorare nel campo della progettazione ad un certo livello.
Inoltre, non tutti hanno vocazione da freelance, e chi, per esempio, è interessato a lavorare su grandi commesse, può farlo solo collaborando con studi di architettura di una certa dimensione o con società di ingegneria.
Ora, ok, non andrò in televisione a fare la ruota e a mostrare la mia bella coda di pavone, ma almeno qui sull’internet fatemi unire al coro di chi dice che l’esercito delle Partite Iva va preso in considerazione come parte del Quinto Stato!
Per questo motivo sto cercando di seguire con attenzione l’iter di approvazione del cosiddetto Jobs Act Autonomi, ormai in pista da più di un anno e – al momento in cui scrivo – fermo all’analisi della Camera, si spera non impantanato in un mare di sabbie mobili.
Perché questo disegno di legge è importante?
Per prima cosa, perché uscire dalla favola che ha per unici protagonisti lavoratori dipendenti e lavoratori pubblici, operai e imprenditori, è già un risultato. E poi perché finalmente si parla di argomenti che dovrebbero essere il nostro pane quotidiano, quali:
- la regolamentazione di tempistiche e termini di pagamento per i professionisti
- la deducibilità fiscale – anche integrale – delle spese di formazione
- le misure di prevenzione e protezione a tutela di chi svolge la propria attività negli studi professionali (anche senza retribuzione)
- la tutela di maternità, malattia e infortunio
- l’eliminazione dell’obbligo di astensione dall’attività lavorativa per usufruire dell’indennità di maternità
- il diritto ad un trattamento economico per il congedo parentale
- le modifiche al codice di procedura civile per far sì che una collaborazione coordinata si configuri con l’organizzazione autonoma del lavoro da parte del professionista (nel rispetto degli accordi, quando/dove/come lavorare lo deve stabilire lui)
Sì, lo so: mi dichiaro pubblicamente un’ingenua perché sogno ancora che la politica possa influenzare positivamente la nostra quotidianità.
Perché dopo un “Mimì metallurgico ferito nell’onore” o un “Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica”, non ci sia posto anche per “Un architetto e un giornalista travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”. Presto su questi schermi.
Mia cara, tu scrivi in un modo meraviglioso. Sappilo!
Isabella, non potresti farmi complimento più gradito: grazie! :*)
e magari ci aggiungiamo pure i disegnatori tecnici, che dici?

Tutti sulla stessa barca!